Eventi & Cultura
Shakespearean oriental express: Anna May Wong per Le Giornate del Cinema Muto
Il ricordo di un’attrice dalla bellezza incantevole, volutamente relegata ai margini prima e dimenticata dopo dallo show system per motivi politici e razziali.
PORDENONE – Società, musica, teatro, politica, moneta, economia, letteratura, pittura, istruzione, tempo libero e naturalmente cinema: diciamolo chiaramente, il presente non lo vuole più nessuno ed il futuro – beh – quello neanche parlarne. Per gli eterni nostalgici, per quelli che ieri era meglio ma l’altro ieri ancor di più e tanto tempo fa il paese delle meraviglie, per coloro che traggono febbrilmente ispirazione da quello che hanno fatto i propri avi al fine di migliorarsi giorno dopo giorno e portare un bagaglio di classe, stile, ordine, eleganza, savoir faire in un mondo dove tutti questi valori pare siano banditi, ecco che – purtroppo solo una volta all’anno – vengono in soccorso Le giornate del cinema muto di Pordenone.
Il dramma shakespeariano con declinazione esotica Song, dove la conoscenza si trasforma in devozione e da lì sfuma in amore eterno anche se non corrisposto, con sacrifici che debordano in umiliazione per un finale catartico e a suo modo liberatorio, ci fa riscoprire Anna May Wong, “presunto cittadino americano di razza cinese per un’indagine preliminare del suo status” come si leggeva sui suoi documenti e da cui si evince che, nonostante la bellezza sconvolgente, l’attrice venne dimenticata presto, anzi al più presto e la sua carriera relegata ai margini dello show system.
C’è qualcuno che non ha mai frequentato LGDCM? Nel caso, funziona così: il film viene proiettato nella sala del Teatro Verdi, scorrono le didascalie, i dialoghi, le descrizioni, nella buca c’è un musicista, o due, o un’orchestra per le serata clou che suona dal vivo non tanto una colonna sonora quanto una vera e propria descrizione musicale della pellicola. Nella fattispecie Stephen Horne, piano e Frank Bockius, percussioni, anticipano un jazz con chiari accenti sakamotiani – siamo nel 1928 – con approccio puntuale, preciso, manierista.
Venue Istanbul con nostalgie londinesi. E’ la Istanbul di cento anni fa divisa geograficamente fra jet set – di casa anche Agatha Christie e soci – e dall’altra ritrovo di homeless per mezz’Europa e una parte di Asia. La sceneggiatura rimbalza in questi due contesti con raro equilibrio estratto e restaurato da (si legge nell’introduzione di testa) oltre 2.400 metri di materiale. Veniamo al punto: la protagonista, Song, malia esotica che ti lascia senza fiato, viene salvata da una tentata violenza da un bruto dal cuore tenero interpretato da Heinrich George, tedescone con i baffoni alla Bismarck, dopo una scazzottata sulla spiaggia con dei poco di buono. Per l’antieroina interpretata da AMW scatta – come anticipato – una sorta di colpo di fulmine misto a “mio eroe, mi hai salvato la vita!” nonostante il nostro non sia la copia e nemmeno un lontano parente di Rodolfo Valentino e che – naturalmente – farà di tutto per perderla.
Nella parte del Bosforo male si vive di espedienti tipo il lancio di coltelli a schivare la bella bambolina orientale in locali malfamati; di rimpetto locali alla moda, perenne abbigliamento da serata di gala, champagne, aragoste e che le pose degli annoiati frequentatori solgono definire blasè. Parte un flashback rivelatore – pensate come avrà potuto reagire il pubblico dell’epoca ad un espediente narrativo di questo genere! – e poi il gioco degli equivoci, dei malintesi, delle mancate corrispondenze farcito con dramma della gelosia, classismo come se non ci fosse domani, violenze di genere e prepotenze quotidiane, senza spoilerare definitivamente la trama in quanto il suggerimento è che “merita vederlo!”, soprattutto per la modernità con cui si sviluppa il più classico dei drammi shakespeariani.
L’incedere della musica, la liturgia reiterata del sacrificio, l’espressività di occhi che bucano lo schermo ad un secolo di distanza, lacrime che mai come ora ci appaiono vere, povere, salate, l’amore incondizionato che pone i protagonisti sempre e comunque su due piani differenti della realtà che giammai può intercedere per loro, il rischio, il tutto per tutto, la scala a chiocciola – spirale verso la morte, una danza macabra suggellata dal cerchio di spade acuminate che lasciano facilmente presagire l’incidente catartico e risolutore, sipario nell’unico modo possibile, auspicato e coerente della tragedia. Insomma, quella volta sì, che i film li sapevano fare!
Appuntamento fino a sabato sera per la quarantatreesima edizione di uno dei festival più importanti del mondo – e sottolineiamo del mondo. E poi nuovamente nel passato, ottobre 2025.
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