Musica
Il giocattolaio della musica: Pat Metheny, serata magica al Teatrone
Due ore e mezza con uno dei più grandi degli ultimi cinquant’anni; Udine in piedi ad omaggiare il musicista di Kansas City
UDINE – Pat Metheny e l’America, Pat Metheny è l’America. Già, perchè – nell’immaginario collettivo coast to coast on the road – se tiri una riga ipotetica da NY a LA esattamente a metà strada ci trovi Lee’s Summit, periferia di Kansas City, terra natia del nostro che non avrebbe potuto nascere altrove se non esattamente nel cuore degli USA. Tredicesima volta dal vivo a Udine, cinquantatrè album in attivo in carriera, “questa è l’occasione di ascoltare bene grande musica” intercala patron king Giancarlo Velliscig durante la presentazione di Note Nuove 2024 by Euritmica (in agenda anche Fresu e Bollani, tra gli altri) “dal vivo! e non da quelle trappole elettroniche alle quali ormai ci siamo abituati. Una musica che riprende il proprio posto da protagonista” aggiungerà prima di lasciare la scena “e non solamente sottofondo delle sfortune del mondo!” Senonchè un attimo dopo, uno speech dall’oltretomba digitale, traduce con un software che pare ben poco aggiornato l’introduzione alla serata, unica parentesi evitabile di una serata che resterà agli annali.
Un chitarrista solo al comando, il suo nome naturalmente è Pat Metheny, si diceva: serie di medley con il meglio del suo repertorio arrangiato acusticamente e con classe cristallina in un flusso continuo e coerente, nei quali si riconosce con una certa emozione Minuano, Garota de Ipanema, This is not America, originariamente Chris.
Django Reinhardt, Wes Montgomery, Jim Hall: nell’olimpo dei più grandi chitarristi della storia del jazz ora chi ne detiene lo scettro abbraccia la Picasso guitar. E’ evidente perchè si chiama Picasso, intercala il nostro per la simpatia del parterre: per chi avesse commesso il tragico errore di non esserci, è quella in foto.
Nel mentre, il nostro ci racconta della sua vita, della sua carriera, delle sue influenze, rassicurandoci come questa sarà la prima ed ultima volta che chiacchiererà così tanto durante una performance: ci confida in merito alla formazione, alla famiglia – tutti grandi trombettisti: il padre, la madre, il fratello, lui… quasi… anzi, no: “quando suoni tu la tromba fai cadere gli uccelli dal cielo!” lo canzonavano – e da lì si parte verso il mondo della chitarra, che adopererà in versione synth con il caratteristico sound che rieccheggierà proprio… la tromba. E del Missouri, naturalmente: parte, quindi, come una colonna sonora della sua (e della nostra) vita un altro medley dedicato ai cieli dello stato più centrale d’America scritto a quattro mani con un amico, prima ancora che un altro fenomeno del proprio strumento, tale Charlie Haden.
Spazio alla sua produzione più controversa: Zero tolerance for silence, con il quale rispondeva a coloro i quali lo criticavano per aver virato in direzione pop con Last train home (anche questa presente nei medley – perchè in ogni caso me la chiedono! – come ci confida il protagonista della serata). Da un eccesso presunto ad un altro, questo di meno, dove le sperimentazioni risultano decisamente più comprensibili dal vivo e ad oltre trent’anni di distanza. Un estratto di pregevole fattura, e riscontro.
Si arriva al clou, per un pubblico dall’attenzione mistica: coup de theatre, via due lenzuola, giù una tenda, compare una chitarra, poi un basso, infinite acustiche; e sul fondale c’è questo marchingegno che pare uscito da un film di Tim Burton, una sorta di box meccanico, spettacolare e cervellotico, musical toys dove percussioni, vibrafoni, piatti, campanelli e quant’altro incastrati tra loro ed innescati in loop dal giocattolaio magico della musica danno vita alla danza ipnotica, magnetica e visionaria di Orchestrion. E’ un delirio!
Gran finale con tutto l’arsenale dispiegato sul palco del Giovanni da Udine: giro di acustica, campionamento seduta stante; giro di basso, idem; arrangiamento con la baritone guitar, come sopra; chitarra solista con assolo solare, liberatorio… metheniano! Ecco, come per magia, abbiamo di nuovo il Pat Metheny Group, con PM da solo sul palco. Lacrime agli occhi.
Standing ovation, luci che si accendono e l’eroe che torna sul palco per l’ultima perla: I love her, rivisitazione Beatles tanto per non farsi mancare nulla, una delle prime ispirazioni (prima di conoscere Miles Davis). Passione interminabile che pare non voler lasciare la scena neanche dopo due ore e mezza di esibizione e la strana quanto condivisa impressione che la sua serata proseguirà con una cena frugale, quattro chiacchiere con gli organizzatori programmando la prossima visita, una doccia e prima di andare a letto tirare fuori dall’armadio un’altra chitarra – così – perchè gli è venuta l’ispirazione per un nuovo pezzo, un arrangiamento, una traccia, una nuova storia da raccontare nell’interminabile carriera di uno dei più grandi di sempre.
Infiniti Grammy Awards, collaborazioni con tutti i migliori (che vantano gli altri, sia chiaro!), centinaia di migliaia di dischi venduti, pure David Bowie, ma per descriverlo una sola frase, quella che pronunciava un certo Pino Daniele per introdurlo in occasione del suo straordinario tour del ‘95 con special guest: “signore e signori, ho il piacere di presentarvi il più grande musicista del mondo: Pat Metheny!” Seguiva, segue, seguirà applauso interminabile.
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