Musica
Paolo, attraverso Miles
Concept opera su Miles Davis, il più grande del jazz, griffata Paolo Fresu. Sold out annunciato al Palamostre per una serata di rara intensità
UDINE – Miles e Paolo: passato, presente, futuro, di nuovo passato. Miles ahead, sempre. Paolo, Miles e la ribellione, la rivincita, il riscatto, l’inquietudine, la nostalgia. Una tromba che dipinge la contemporaneità, fissandola perennemente in un secolo nel quale è icona di riferimento. Miles, pretesto autobiografico. Adagiato – non annodato – l’ascot per l’uno, catena d’oro da almeno un chilo per l’altro. Fresu che si specchia in Davis o forse meglio ancora: Paolo, attraverso Miles.
Perchè sul suo volto, sulle sue mani, sulle sue rughe, tra le sue espressioni, nelle sue note scorre vita tormentata, inquieta, tempestata, disperata, distruttiva, creativa di pieno jazz imbellettato da splendide donne, vestiti alla moda, collezione di Ferrari: una “silhouette ad esse” che collega ciò che c’era con ciò che ci sarà e che – probabilmente – sarà proprio ciò che c’era.
Le canzoni ai matrimoni, l’iniziazione, un tape, oggi feticcio di archeologia riproduttiva, le ballads. “Io figlio di un pastore, il mio collega di un farmacista che, per questo, possedeva già una propria discografia (già perchè al tempo la musica la si possedeva!) ed un impianto di riferimento dal quale mi fece ascoltare Autumn Leaves per poi prestarmi la cassetta con la versione di Davis da ascoltare al fine di trascriverne gli assoli con il mangianastri sgangherato di mio fratello” intercala in un mix tra confessione e diario di bordo l’autobiografia milesiana del protagonista.
“Quando poi la sentii, realizzai per un istante: ma mi ha preso in giro! Già perchè quella non era Autumn Leaves.” Pausa. “Invece era proprio lei,” riprende “uno dei grandi standard che Lui aveva ripensato, ricreato, reinventato portandolo in una dimensione che ai più era preclusa: insomma, avevo scoperto il jazz!”
Inizio autobiografico, lirico e poetico si diceva, come in quell’estate del ‘91 quando PF ascolta lo sbattere delle onde la mattina presto sul molo di Cagliari, città che ama ma che non sa ancora che uno dei più grandi geni del ‘900 sia morto. Ostinato, un nome, un titolo, un biglietto da visita: il suo primo album, qualche anno prima. Dal cassetto dei ricordi l’incontro o quasi: ad Umbria Jazz, laddove il direttore artistico gli dice “vieni, che te lo presento!” e lui che si vede scappare nella notte perugina a gambe levate dalla paura e per l’ilarità del parterre.
Capitolo Bitches Brew: “chiamò la mattina un gruppo di musicisti (e che gruppo!) che si presentarono qualche ora dopo senza sapere che cosa avrebbero dovuto suonare!” Ne esce una specie di jam session di tre giorni che il produttore taglia qua e là e la ripropone su un disco che diventa immediatamente pietra miliare di tutto il decennio successivo fino ad arrivare ai giorni nostri. Un passaggio iniziatico nel quale per l’ennesima volta era andato a fare da battistrada per le generazioni di musicisti venturi.
E così, live at Palamostre, doppia sessione ritmica vale a dire palco suddiviso longitudinalmente tra elettrico ed acustico con batteria e basso elettrico da una parte, percussioni e contrabbasso dall’altra in acustico che, nei pezzi clou, quelli con tonnellate di groove, suonano insieme in un’architettura sonora di rara intensità. La chitarra alla McLaughlin, doppio – neanche a dirlo anche qui – piano con un ottantotto tasti e il leggendario Fender Rhodes a sinistra (dello spettatore) e i synth dall’altra, trombone che fa da straordinario contraltare allo strumento principe, quella tromba che è anche tipica – apprendiamo dalla narrazione che scandisce i tempi dello spettacolo da parte dello stesso PF – dei grandi cantanti: Chet Baker su tutti. Uno strumento che richiama sempre e comunque la voce.
Leggera forzatura con MD paladino dei diritti afroamericani: del resto ne abbiamo viste di peggio tipo Elvis o addirittura Marylin, ma il mercato ora chiama così. E poi, ammettiamolo, siamo talmente mal messi a livello di consapevolezza del pubblico che l’anfitrione deve spiegarci che si esibisce dando la schiena alla platea – come del resto faceva l’idolo nella seconda parte della carriera – non per maleducazione bensì per un senso di comunione con i propri musicisti.
“Non ho mai sentito un Fresu così!” ci si esalta nei commenti a caldo, all’uscita del teatro che ha appena ospitato un (reale!) tutto esaurito, tra gente che il jazz lo mastica bene e lo stesso king Velliscig che, visibilmente compiaciuto, si fa sfuggire un probabile altro ospite della prossima edizione di Udin&jazz dopo il già annunciato Jacob Collier e del quale vi diamo un piccolo indizio, in attesa dell’ufficialità: ha suonato… con Miles!
Insomma, appuntamento al 2025!
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