Eventi & Cultura
Tutti defunti… tranne Pupi!
Autobiografia in jazz per morte, cinismo e risate: serata indimenticabile al Teatro Ristori con un mostro sacro del cinema italiano
CIVIDALE DEL FRIULI – La casa dalle finestre che ridono, Zeder, Una gita scolastica, Regalo di Natale, Il papà di Giovanna, Tutti defunti… tranne i morti: sono solo alcuni dei titoli della sterminata carriera di un “patrimonio italiano della cultura” come lo annuncerà Alberto Bevilacqua, direttore dell’ERT, in una serata dove riso, pianto, gioia, commozione, speranza, malinconia, ricordi e caustico umorismo si fondono in un’autobiografia a forti tinte jazz.
Già, perchè Pupi Avati, classe 1938 da Bologna, da oltre mezzo secolo è uno dei più affermati registi del nostro paese che porta avanti quella grande tradizione di cinema artigianale che ha fatto la storia del medesimo.
La confessione in musica presenta sin dall’apertura un leit motiv con variazioni sul tema della morte – perenne protagonista – che va a braccetto con la risata, che ne esorcizza l’implacabilità. Si parte con un urlo nella notte: straziante, lacerante, distruttivo, che segnerà per sempre la vita e l’opera del maestro: è quello della madre, un dieci agosto di tanti tanti anni fa di pascoliana memoria, quando apprende in un colpo solo della scomparsa causa incidente stradale del marito e della madre. In questo tourbillon di sentimenti, il Pupi adolescente ricorda che il giorno stesso ricevette il primo bacio da una coetanea della quale era perdutamente innamorato e di come ritrovandola qualche decennio più tardi questa non fosse più l’avvenente fanciulla incontrata al mare. Segue monito a tutti i presenti: “capito, non cercate mai il passato!” cui risponde il primo di una lunga serie di liberatori, catartici, riconoscenti applausi dal parterre.
Il cinema dentro il cinema, il teatro dentro il teatro, uno storytelling dentro uno storytelling per usare un linguaggio contemporaneo, il racconto di Avati è sempre al limite tra verità e simpatica bugia, cinica interpretazione verosimile di un paese, prima ancora che di una vita, che ci appare lontano anni luce ma il cui ricordo, sbiadito quanto vivido, suscita forte commozione come una vecchia foto in bianco e nero con la colonna sonora di Stardust di Hoagy Carmichael, “il più bel pezzo jazz che sia mai stato scritto” e che culla e chiude uno dei tanti intramezzi.
Capitolo corteggiamento: sedicente antiquato, demodè, avulso dalla modernità: “noi siamo un puzzle perfetto a cui manca una tessera, e quella tessera è la persona giusta per noi!” con solo di clarinetto. Già, il clarinetto, quello strumento tanto amato e primordiale passione, innanzi ancora del cinema, fino all’arrivo nel suo complesso di un tale – anche lui bolognese – di nome Lucio Dalla. Che all’inizio doveva stare nelle retrovie e fare l’accompagnamento e poi una sera si alza e spara un assolo che nessuno aveva mai sentito prima. “Mi aspettavo che i miei amici mi difendessero, che lo rimettessero a posto… invece… oh, bravo, complimenti, sei un fenomeno!” intercala piacevolmente sconfitto. “Gli amici…” segue un gesto del braccio, trattenuto, con aria malinconica e disincantata che assorbe totalmente la posa stanca e grata al contempo del nostro eroe.
Da qui nasce un aneddoto che sfocia in quelle risate da crampi allo stomaco, avete presente?! Insomma, Pupi racconta che detestava Lucio, perchè lo stava rimpiazzando, portandogli via il giocattolo. Allora una volta giunti in tournée a Barcellona lo invita a salire assieme in cima alla Sagrada Familia per ammirare il panorama: oltre novantatré metri di volo, scatta la tentazione di eliminare una volta per tutte il rivale, ma questa naturalmente viene repressa. “Però la raccontavo spesso tra gli amici, di quella volta che avevo risparmiato Lucio!” ci scherza. Concluso qui l’aneddoto? Neanche per sogno, adesso arriva il bello: qualche tempo dopo il nostro sente Dalla, ormai star internazionale, raccontare ad una trasmissione radio di quando il grande regista venne tentato dalla furia omicida, per fortuna trattenuta, in cima al capolavoro di Gaudì. “Solo che non era vero niente, io mi ero inventato tutto, non eravamo neanche mai stati a Barcellona! Questo qui non solo mi aveva rubato il posto nel complesso ma si era appropriato anche della mia bugia, del mio racconto!” segue una serie di simpatici e bofonchiati insulti. E a questo punto il Ristori – capirete – è una bolgia.
Ed ancora, a pennellate di incurante ironia, la moglie che lo sposa per sfinimento, la scoperta della decima musa grazie a 8 e mezzo di Fellini, la casualità che regola gli ordini del mondo. Sceneggiature inviate a tutti i più grandi di allora più e più volte, lanciare il cuore e la macchina da presa oltre l’ostacolo; ma non risponde nessuno. Anzi, sì: una mattina arriva una raccomandata mittente Ennio Flaiano, un mito vivente. La apre assieme alla sua troupe con ansia e trepidazione alle stelle. Tre parole: non-scrivetemi-più. Viene giù il teatro!
Il bello, il brutto, il versatile: i grandi compagni di viaggio, un pugno di caratteristi che all’interno annoverava dei fenomeni, molti dei quali già passati a miglior vita come l’avvenente Lino Capolicchio, o Carlo Delle Piane, lui praticamente l’unico (Pupi) a conferirgli ruoli da protagonista in oltre mezzo secolo di carriera, per non parlare di Gianni Cavina, compagno della prima ora sin dai tempi del bar Margherita “che, avendo lavorato in banca (per un mese!), ci confermò la validità dei primi assegni incassati!”
Chi fa il cinema crede all’inverosimile, uno delle fedi del maestro. La malinconia di chi ammette candidamente ed in pace con sé stesso di essere quasi giunto al capolinea della vita terrena e che pesca dal cassetto della memoria aneddoti sgangherati quanto improbabili da armata Brancaleone della pellicola, prese in giro, in una Bologna città spietata, cattiva, crudele, un nano con un albino che si fa chiamare mr X che gli procurano i budget per i primi fallimentari film, star scoperte involontariamente come Mariangela Melato, ancora adolescente e capitata per caso sul set e poi, quando tutto sembra finito, la svolta, griffata anche qui da un grande, anzi, da un monumento del nostro cinema.
Ecco che Ugo Tognazzi, al quale giunge sottomano (e naturalmente anche qui per sbaglio) il copione anche questo rigorosamente improbabile a firma Pupi Avati e fratello, si propone per la parte del protagonista… a titolo gratuito. La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone – il titolo è già un programma! – è la grande occasione che gli cambierà la carriera, e che carriera! Ancora una volta l’inspiegabile, la combinazione, l’irrazionale, il sogno, il coraggio, l’irresponsabilità e sopra ogni cosa quel confondere la vita con il cinema, filosofia alla quale aveva da sempre anelato.
“Perchè le cose belle sono possibili, ma bisogna avere il coraggio di dare il proprio contributo, di tirar fuori le parti più segrete, di pagare il prezzo dell’essere indipendenti perchè ne vale la pena e soprattutto credere fermamente che esista il… per sempre!” Segue standing ovation. Serata indimenticabile.
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